10 Marzo 1956
Erano passati anni da quella
tremenda notte, ormai avevo vent'anni e avevo deciso di trasferirmi a
New Orleans. Ero letteralmente scappata da Joseph, non perché mi
trattasse male, ma perché avevo bisogno di risposte concrete e di
vedere il Quartiere con i miei occhi. Quando provai a visitare la
casa di Evaline mi aprirono una famiglia benestante che non
conoscevo, in quel momento capii che Evaline, Tiffany, Kaileena,
Jolene e Francis non erano ancora nati e mi abbandonai nello
sconforto.
Per settimane restai in
camera a piangermi addosso, poi, però, mi ripresi. Ero alloggiata da
quattro mesi in un appartamento vicino Canal Street e avevo trovato
un lavoro in una locanda di Bourbon Street. La paga faceva schifo
quanto i mio datore di lavoro, un uomo vecchio, grasso, affetto da
calvizie e perennemente sudato. Sbraitava in continuazione ordini e
ci costringeva a lavorare con i tacchi, cosa mi che distruggeva le
caviglie.
- Tess! Tess! - Una mano mi
toccò delicatamente la spalla, mi voltai e vidi il volto di una
donna sulla trentina. - Ehi, mi senti? Devi portare questi al tavolo
due.
- Sì, scusa, Cecilia. Ero
sovrappensiero. - le sorrisi e mi affrettai a servire.
Un'altra collega mi si
avvicinò. - Sai che se batti la fiacca quel ciccione sgriderà a
tutte, vero?
- Mi dispiace... - risposi.
Lei sospirò. - Non
dispiacerti, lavora!
Da un lato aveva ragione,
era l'ora di punta e i clienti erano molti. Il lavoro era mal pagato
e stressante ma era meglio di niente.
Verso le tre del pomeriggio
la clientela se ne era andata tutta e c'era un momento di calma
piatta, quindi mi sedetti su uno sgabello del bancone. Mi guardai
attorno per essere sicura che non ci fosse nessuno e mi tolsi le
scarpe. Avevo i piedi gonfi e doloranti, più del solito.
- Cosa avevi per la testa
oggi? - mi chiese la collega che mi aveva rimproverata.
- Nulla. Stavo solo pensando
ai mie amici. - le risposi.
Lei si sedette accanto a me.
- Ti mancano?
- Tu non immagini quanto. -
sorrisi nervosa.
- E come mai gli hai
lasciati per venire in questa piccola città? - mi chiese Cecilia
appoggiata alla scopa.
Io la guardai negli occhi. -
Fidati, se te lo dicessi non mi crederesti.
La donna sorrise confusa.
- E da quanto non li vedi? -
continuò l'altra collega.
- Sono anni ormai. Poi ho
incontrato un altro amico che alla fine ho dovuto lasciare per poter
tornare a casa. - Quell'affermazione mi fece venire un nodo alla
gola. Piantare in asso Joseph in quel modo, senza avvisarlo, mi
vennero i sensi di colpa.
Cecilia si mise a ridere. -
Tesoro, questa città è piena di mafiosi, negri, musi gialli e
italiani mangia spaghetti. Le puttane girano per strada alla luce del
sole e gli spacciatori sembrano i padroni dei quartieri. Ma quando
New Orleans ti entra dentro non c'è amore che tenga, lei vincerà
sempre su tutto.
Sorrisi, era vero, sentivo
un legame con questa città, come se il mio compito non fosse ancora
finito e dovessi servirla in qualche modo. Mi massaggiai i piedi per
alleviare il dolore e il gonfiore, il turno non era ancora finito. Mi
rimisi le scarpe e cominciai a spazzare per terra aiutando le mie
colleghe.
Dopo una decina di minuti la
porta si aprì e una ragazza di colore entrò nel locale. Aveva la
mia età gli occhi neri, i capelli castano scuri e lunghi con
l'acconciatura rasta e piena di lentiggini sul volto.
- Samari, che ci fai qui? -
le corsi in contro.
- Ciao, Tess. Mi serve aiuto
e non sapevo a chi chiedere. - mi rispose agitata.
Samari l'avevo incontrata
pochi mesi prima, era ferita per colpa di alcuni aggressori e io le
avevo prestato soccorso. Dopo quell'evento riuscimmo a vederci solo
in un altro paio di occasioni.
- Cos'è successo? - le
chiesi.
- Mio padre mi ha buttata
fuori casa. Ha detto che ho raggiunto il limite e che se non volevo
sottostare alle regole dovevo andarmene subito, ed eccomi qua. - mi
spiegò.
L'abbracciai. - Tranquilla.
- Non ho più niente, Tess.
Niente vestiti, niente soldi. Niente. - cominciò a piangere.
Cercai un aiuto da parte
delle mie colleghe di lavoro ma ricevetti solo sguardi misti tra il
confuso e il disgustato. Per un istante mi chiesi perché si
comportassero così poi ripensai agli anni in cui vivevo: essere neri
in quel periodo significava essere peggio dei ratti di fogna.
Le presi le guance e la
guardai negli occhi. - Tranquilla. Verrai a stare da me. Va bene?
Lei fece di sì
singhiozzando.
Cecilia da dietro il bancone
borbottò: - Sei troppo buona, Tess.
Mandy, l'altra collega
invece: - Se tutti i suoi amici sono così...
Da una parte compativo quel
modo di pensare nato dall'ignoranza e dall'intolleranza ma dall'altra
provavo rabbia. Pochi minuti prima mi parlavano amichevolmente e poi
borbottavano alle nostre spalle.
- Che cazzo succede la
fuori? - urlò un uomo dalla cucina. Subito dopo il capo della
locanda aprì bruscamente la porta ed entro in sala. Appena mi vide
la sua espressione cambiò e diventò paonazzo dalla rabbia. - Che
cosa ci fa questa negra nel mio ristorante?
Di nuovo quella parola,
pensai mentre mi montava la rabbia, ma il lavoro mi serviva e ingoiai
di nuovo il rospo.
Sospirai. -Va bene. Samari,
vieni dai, usciamo da qui.
L'uomo mi prese per un
braccio e mi riportò davanti a lui, era veloce per essere un
ciccione bastardo. - Tu non vai da nessuna parte. E, guardami bene,
ti ordino di non immischiarti con certa gente. Chiaro? - mi sbraitò
in faccia.
Io mi divincolai dalla sua
presa. - Come prego? Apra bene le orecchie perché non lo ripeterò:
lei potrà anche farmi lavorare mattina e sera con i tacchi alti e
pagarmi una miseria. Ma non si azzardi mai più a dirmi cosa fare
nella mia vita privata. E se mi tocca di nuovo la denuncerò per
molestie sessuali. - gli urlai furiosa fissandolo negli occhi.
Quando notai una lieve
indecisione da parte sua, presi Samari e feci per uscire. Mi girai un
attimo e guardai le mie colleghe. - E voi due vergognatevi. - Poi
uscii dalla locanda.
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